C’era una volta -prima dell’inglese– l’italiano amato e studiato oltreoceano; c’era una volta e ora non c’è più. Facciamo un mini viaggio nel tempo, uno di quelli in cui non si fa in tempo neanche a posare la valigia che subito si riparte. Siamo nel 1600, il secolo dell’Illuminismo che attende a braccia aperte grandi nomi della letteratura francese e non come il grande Voltaire.
La Francia a quei tempi era un grande punto di riferimento linguistico-culturale, ma anche l’italiano si era ritagliato una buona fetta agli occhi stranieri. A dircelo è la storia: i francesi come gli europei prendevano lezioni private di italiano. O meglio, solo i più abbienti; eh già, perché la nostra era considerata lingua di cultura e di alta lirica. Ma dato che lingua e cultura sono due facce della stessa medaglia che si influenzano così tanto da fondersi, dal XVII secolo ad oggi è cambiato tanto e l’italiano lo sa.
L’inglese tra prestiti ed ostentazione linguistica
Oggi il ruolo della nostra lingua è stato soppiantato (o forse anche di più) dall’inglese. Si fanno stage di formazione, si disprezza -ma non se ne fa a meno- il junk food e si apprezza il finger food. Si elogia il made in Italy -non il “prodotto italiano”- e l’Italian style anche quando celebrato nell’area dello stivale, e una domanda sembra nascere spontanea. Perché celebrare l’italianità in una lingua che non è italiano?
Che sia chiaro: tutti i prestiti (anche se come il professore di linguistica Giovanardi afferma, non si capisce per quale motivo chiamarli prestiti se poi nella lingua di arrivo si adattano così bene da non tornare più nel paese d’origine) sono una valido alleato per arricchire la nostra lingua. Nascono così -e non solo- nuovi lemmi avallati dall’Accademia della Crusca, l’antichissima istituzione linguistica che filtra, come suggerisce il suo nome, la farina (il buon uso della lingua) dalla crusca. Certo, poi i veri accademici siamo noi: è la collettività e il suo utilizzo a sancire l’entrata o meno di un vocabolo straniero nella lingua di destinazione quasi a pari merito con l’istituzione.
Inglese sì, ma non troppo
Abbiamo infiniti esempi di vocaboli usati quotidianamente come grattacielo, nato dal calco formale inglese di skyscraper (traduzione letteraria), stalking (prestiti non adattati), stella (calco linguistico che ha registrato una nuova accezione grazie alla traduzione di star) e tanto altro ancora. L’inglese, oltre ad arricchire il nostro lessico con calchi semantici, linguistici, prestiti adattati e non, è anche, in alcuni casi, necessario. Parlo di parole più o meno tecniche riguardanti l’informatica, ad esempio, ma anche espressioni in grado di snocciolare concetti più lunghi o peculiari. Ma quando è troppo è troppo. Anche un elemento di per sé positivo quando se ne abusa, diventa nocivo.
L’inglese a tavola e a lavoro
Ascoltiamo il telegiornale e l’inglese è inflazionato: “Ora le ultime news riguardo spending review e flat tax”. Lo stesso in contesti altrettanto formali come durante i colloqui quando, titubanti, non sappiamo se rispondere in italiano o in inglese al nostro “job recruiter” che afferma: “Per sviluppare il core business della nostra azienda cerchiamo una persona smart e focus-centered con doti multitasking”.
Non si parla di purismo linguistico ma di uso forzato e continuo, spesso anche sbagliato, dell’inglese. Rimpolpare frasi della vita quotidiana, lavorativa o checchessia con anglicismi o presunti tali vuol dire non parlare né italiano né inglese. Spesso lo si fa per ostentazione, perché suona “glamour” o perché sembra innalzi lo status sociale dell’interlocutore. I linguisti sanno benissimo però che parlare bene una lingua, vuol dire innanzitutto parlarne una. Poi, parlarla bene. Parlate sì di tirocinio, ma non di stage (detta all’inglese), a meno che non si intenda qualcosa a che fare con un palco teatrale. Inoltre, non è necessario aggiungere “s” finali ai plurali inglesi perché i prestiti non si adattano (avete visto dei films o semplicemente dei film?).
Prima dell’inglese, l’italiano
Last but not least, cercate di utilizzare più e meglio l’italiano e sostituite parole inglesi solo quando la traduzione non c’è ed è necessario. L’innesto della lingua inglese in quella italiana è come l’uso smodato della tecnologia o un buon bicchiere di vino rosso al giorno che diventa una caraffa di vino a basso costo e può causare danni a lungo andare. La materia prima di per sé è buona, è la modalità di utilizzo che può essere opinabile. Media est in rebus, dicevano i latini.